L’impasto reale
di Giorgio Prada – Formatore e pedagogista, docente presso l’Università degli studi di Milano Bicocca Dipartimento di Scienze Umane per la formazione “R. Massa”.
Ho ricevuto un mandato, quello di svolgere una riflessione, non un “lavoro formalmente scientifico”, provando a reagire alle quaranta proposizioni del Sinodo dei Giovani di Cremona.
Interpretare?
Si potrebbe provare a interpretare cosa si muove nel cuore di questi giovani. Ci si metterebbe nella posizione di un osservatore neutrale cercando un’identità, a partire da ciò che essi non riescono a vedere ed esplicitare, ovvero dai loro stessi ancoraggi, quei modi di pensare che finiscono per orientare i gesti, le scelte, gli accadimenti.
Confrontare?
Si potrebbe provare a confrontare quel che queste proposizioni indicano con le indagini svolte sui giovani rispetto ai temi proposti. Un esercizio sociologico utile per definire ancor meglio il profilo dei giovani cremonesi, ma ci si metterebbe ancora nella posizione di chi vuol capire chi ha davanti.
Giudicare?
Si potrebbero indicare tutte le contraddizioni, tutti i limiti, le pochezze che con una buona analisi si potrebbero elencare, finendo per valutare, dall’alto, per dare un giudizio circa quel che ci piace o meno di questi nostri giovani.
Sono tre rischi che chiunque si trovasse a leggere le quaranta proposizioni corre e che dunque ho corso e finirò per correre anch’io. Mi è stata tuttavia chiesta una “lettura pedagogica”. Quel che ho pensato ad un certo punto fosse meglio fare, è stato di provare a trarre dalle quaranta proposizioni, delle conseguenze, che io riterrei necessarie, in termini di bisogni formativi o trasformativi.
Questo è il mio tentativo, ma per poter valere qualcosa, avrebbe bisogno di tornare in qualche modo ai giovani che quelle proposizioni faticosamente hanno prodotto per poter entrare in dialogo e capire insieme dove e come andare.
Per una lettura pedagogica
La coerenza degli adulti
In più parti si evidenza il bisogno di coerenza degli adulti che precedono questi giovani nel loro cammino (1, 15, 19, 20 ). Evitando di interpretare le motivazioni che li spingono, direi che questo è un bisogno formativo “disperato”: non dipende da loro, dipende solo dagli adulti, ma tuttavia la Chiesa in Cremona non può agire direttamente sul tema, su questo bisogno dei giovani. La condizione di costante riforma nella quale la Chiesa peraltro vive, spinge a considerare con serietà questo “bisogno”, al quale tuttavia è possibile rispondere solo… con una conversione. Forse, volendoli ascoltare comunque, si potrebbe osare la necessità di “riforma” della Chiesa. Quel che si potrebbe fare è mettersi in ascolto paziente, per approfondire con loro la provenienza di tali affermazioni, in termini di vissuto ecclesiale e personale. Quel che invece vale la pena di sottolineare è una declinazione del tema in termini educativi, allorquando ci si esprime a nome di quei “giovani”, tutti gli altri, dunque la stragrande maggioranza del mondo giovanile, dai quali la questione li divide ed evidentemente li fa soffrire. Perché più avanti i giovani chiedono di poter agire nei loro confronti senza mediazione, direttamente (7).
L’essenziale che sarebbe visibilissimo agli occhi
Si chiede un’esperienza di Chiesa basata sull’essenziale, articolata pertanto in Parola, Comunione e Servizio. Questa direzione porterebbe la Chiesa ad affascinare suscitando l’interesse altrui. Di qui la possibilità di divenire ponte verso i coetanei “lontani” (7). Quel che si dovrebbe pensare allora sono percorsi di ridefinizione della proposta che la Chiesa fa ai giovani affinché questa essenzialità diventi concreta, visibile, “materiale”. Per questo occorrerebbe fidarsi molto di questi giovani affinché si lancino in percorsi sperimentali a partire proprio dalla forte richiesta di una corresponsabilità piena ed autentica nell’esperienza di essere Chiesa (4, 6, 7, 8, 21, 25, 30, 34).
Assumendo sul serio questo uno-due, l’essenziale e il protagonismo, verrebbe da indicare la possibilità che ogni realtà giovanile esca, vada a sperimentare il nuovo, seguendo le intuizioni giovanili come tante piste, diverse anche tra loro. Si potrebbe dare un periodo di lavoro, una scansione quantomeno quinquennale, durante la quale le realtà giovanili che lo desiderano, seguendo quanto riportato, si impegnino, assumano un impegno ecclesiale a provarci e dopo un quinquennio tornino a raccontare cosa hanno scoperto, come hanno fatto, quali speranze il loro lavoro ha permesso di coltivare e quali limiti… una Chiesa che ascolti i suoi giovani e al posto di continuare a pascerli, si fida di loro e chieda loro di andare in missione. Il dispositivo educativo mi pare evidente: prendiamo sul serio, vi sproniamo a provare, vi sosteniamo comunque vada e se lo Spirito soffierà godremo certamente dei frutti!
In questo è forte infatti in loro il richiamo alla vita reale, ai problemi e alle speranze del quotidiano che garantisca la possibilità di esprimersi attraverso i fatti e le relazioni vere. E che tali esperienze possano essere mosse dai giovani per i giovani, più che dai sacerdoti per i giovani. Di qui la necessità di modellare allora i percorsi di crescita giovanile sulla necessità di toccare la vita (non alienanti), di suscitare desiderio (appassionanti), offrendo testimonianze credibili (autentiche).
Centro e periferia, rete!
Un’esperienza di Chiesa per la quale si chiedono esplicitamente percorsi di formazione di alto livello, ma soprattutto condivisi tra comunità ed esperienze diverse, con riferimenti zonali più forti, perché si ritiene che solo “in rete” si possano superare solitudini e stanchezze (10, 28). Questo passaggio potrebbe segnare la via per un’articolazione di percorsi in luogo di un’unica, forse avvertita come standardizzata più che come unitaria, proposta educativa. Il movimento che si avverte è quello inverso a quello tradizionale per cui la proposta arriva dal centro, la Diocesi, per essere poi delegata alle Parrocchie. Forse anche qui non si tratta di mal intendere la comunione ecclesiale, dal momento che il richiamo alla coerenza e all’essenzialità dovrebbe al contrario rasserenare chi si preoccupasse per loro. Forse questo potrebbe voler dire ad esempio che la proposta si limita ai contenuti dal momento che le articolazioni concrete, le traduzioni incarnate di tali contenuti, debbano e possano rispondere ad esigenze diverse tra loro. Forse pedagogicamente parlando il “sussidio” ha fatto il suo tempo. Lo studio e l’approntamento dei sussidi è come l’organizzazione di una festa: appassiona di più chi li prepara che chi ne fruisce, dal momento che in qualche modo finisce per rendere passivi e questo, col tempo, satura l’esperienza tradizionale, dalla quale ci si vorrebbe smarcare. Una Chiesa di questo genere dovrà imparare a comunicare stando al passo coi tempi, prestando più attenzione al media, così da veicolare bene e bellezza invece che fatica e limiti (11).
Vedere le pareti del tunnel è già un essere fuori dalla crisi?
In più parti pare emergere con forza il bisogno di affrontare la questione della frammentarietà e della crisi di prospettive, due facce della stessa medaglia nel tempo del disincanto che “non facilita la voglia di impegnarsi” (12, 22, 38).
A chi respira “un’aria provvisoria”, non è proprio utile contrapporre una semplificante necessità di un aut aut riguardo agli stili di vita, indicando sempre e soltanto la necessità di “scelte definitive”, di “scelte importanti”: ciò può ridurre i termini del problema perché la realtà appare loro ben più complessa per cui, de-cidere, pare comporti ai loro occhi il rischio di re-cidere soltanto; e questo non serve perché risolve il conflitto del nostro tempo attraverso la negazione di quelle parti importanti di realtà che loro dicono di voler incontrare e vivere, nonostante tutto: emerge forte il bisogno di interpretare in modo diverso i temi legati alle grandi scelte (12, 23, 27, 29), diverso dall’interpretazione che ne dà chi indica la strada… salvo poi finire per trasformarsi per i giovani in segno di contraddizione, come sottolineato in modo massiccio con la richiesta di coerenza posta agli adulti.
Colpisce e stimola in questo, la richiesta di una nuova interrogazione teologica capace di offrire nuove, diverse, risposte (15, 16, 17, 18). Non le risposte attese, che non sono per forza quelle che “il mondo” chiede alla Chiesa, altrimenti la via d’uscita sarebbe evidente, ma vere e proprie “innovazioni”, quelle che il Vangelo ha sempre offerto agli uomini di buona volontà. Si avverte l’esigenza di uscire, finalmente, da una logica devozionale (32), riaffermando in questo modo l’esigenza di far fronte al nostro tempo con un’attrezzattura che sia all’altezza delle sfide contemporanee.
Sembra di avvertire la speranza che questo sia proprio alla portata dei giovani. In questa situazione forse essi avvertono di essere “soluzione” quando esplicitano la richiesta di essere come testati, attraverso “sostegno, collaborazione e condivisione di esperienze e metodi perché si possano coinvolgere più persone e più realtà” (38). Una declinazione oggettiva di questo tema viene esplicitata non a caso quando dicono che sia necessario “creare anche una coscienza politica che abbia come prerogativa l’ascolto del bisogno dell’altro” (40). Anche qui occorrerebbero degli incubatori di esperienze che consentano di sperimentare tali affermazioni, fino alle necessarie conseguenze.
E così facendo, partendo dalle contraddizioni, dalla speranza di vederle risolte in nuove mediazioni, chiudono la parabola di una Chiesa che si prepara ad esser più coerente perché fondata sull’essenziale impastato coi problemi del nostro tempo, dal quale non ci si ritrae, non ci si ritira e infatti il discorso esita in termini sociali, politici.